Ligabue Magazine 18
Primo semestre 1991
Anno X
Con l’approssimarsi delle «Colombiadi» del 1992, i giornali europei ed americani ricorrono volentieri al sostantivo serendipità, che secondo i dizionari significa «trovare una cosa non cercata ed imprevista, mentre se ne cerca un’altra», e segue l’esempio: la scoperta dell’America fu un caso di serendipità.
Incluso nel prezzo anche la versione digitale *
* Le versioni digitali dal n. 1 al 57 sono ottenute da una scansione del Magazine. Potrebbero pertanto presentare delle imperfezioni nella visualizzazione dei testi e delle immagini.
Questo lemma, con il suo soave profumo elisiaco, fu inventato intorno alla metà del 1700 da Sir Horace Walpole, IV Conte di Orford, sulla nozione allora diffusa che l’isola di Ceylon fosse stata scoperta per caso dal portoghese Lourenço de Almeida nel 1505, mentre veleggiava per raggiungere i favoleggiati tesori del Borneo.
Orbene, il nome Ceylon è la corruzione inglese del singalese Sèlà n, o Simhala, che a sua volta deriva dal sanscrito Sinhadnìpa (isola dei leoni), adattato dagli arabi in Sarandip, o Serendip, o Serendib, voce quest’ultima che a Colombo è tuttora viva, e che suggerì a Walpole il concetto della scoperta casuale. La trovata lessicale era buona, ma il punto di partenza era sbagliato, perchè l’isola, l’antica Taprobane, era già nota da secoli ai Greci e agli Indiani, era stata segnalata da Marco Polo; il marocchino Ibn Battuta vi aveva approdato nel 1344; e nel 1502, l’aveva visitata e descritta il bolognese Ludovico de Vertema, mentre il merito della scoperta fu attribuito al giovane Almeida, sia perchè era figlio di un grande ammiraglio, sia perchè, di fatto, l’isola fu conquistata dai Portoghesi nel 1505.
Ma se è vero che la serendipità contrassegna una scoperta fatta per caso, sarebbe errato credere che la storia del progresso scientifico sia cosparsa di scoperte sensazionali dovute soltanto al caso, mentre caso, fortuna, intuito, nella grande maggioranza delle congiunture felici hanno soccorso uomini di sapere intenti a dotte ricerche. Lo scheletro di Lucy fu trovato sì, per caso, ma da un antropologo, non da un turista di passaggio in Etiopia; nè i raggi X furono scoperti da un fotografo dilettante; nè la telegrafia senza fili fu inventata da uno scrittore di fantascienza; nè le virtù di un Penicillum notatum furono messe alla prova da un giocoliere.
Del resto, anche Cristoforo Colombo nel 1492 aveva già un’esperienza quasi ventennale come navigatore, aveva studiato le opere dei viaggiatori e dei cartografi, e soprattutto, sapeva di poter contare sugli alisei. Da qui una regola che ci guida nel preparare il Ligabue Magazine, che quest’anno festeggia il suo decimo anno di vita; i nostri collaboratori han da essere scelti fra studiosi che divulgano cognizioni di cui sono bene edotti, e che non si affidano al caso. Cominciamo dall’illustre straniero, J. Desmond Clark, che è stato per 25 anni professore di antropologia all’Università di Berkeley, è fellow di una trentina di Accademie, è stato responsabile o condirettore di venti spedizioni archeologiche in Africa e in Oriente, autore e coautore di 18 volumi e di 270 memorie sulla preistoria africana ed asiatica, e non basterebbe l’intera pagina ad elencare i suoi palmarès; venuto a conoscenza del fatto che, nel 1986, Giancarlo Ligabue e Gunter Konrad avevano contattato, per la prima volta, i pigmei papua in cima alle montagne, negli altopiani centrali della Nuova Guinea, fermi al Paleolitico, che utilizzavano ancora le asce di pietra non conoscendo la metallurgia, prodotto base della nostra civiltà , Clark ha avvertito un «colpo di fulmine» in quanto ha dedicato molti anni allo studio dell’industria litica dei nostri antenati.
Quindi, nel corso della nuova spedizione, avvenuta recentemente in Nuova Guinea, il ritrovare esempi del nostro passato, è stato, come lui stesso dice: «un’esperienza irripetibile per la quantità di dati raccolti che contribuiscono a costituire un patrimonio di grande valore per gli studiosi di tecnologia litica». Chi vuole sapere come vivono e come producono le loro asce di pietra quei pigmei, legga a pag. 32.
Basta nominare l’incenso e, quasi per un riflesso condizionato, al vocabolo si associa un pensiero di elevazione spirituale che trae origine da quanto si legge nell’Esodo e nel Levitico: nei riti di molte religioni, da millenni, il profumo dell’incenso purifica, sale al cielo, e bastano le sue volute di fumo lievissimo per diffondere un’aura mistica. Prodotto esotico e raro dell’Arabia Meridionale, l’incenso ha una storia spesso diluita nella leggenda, e per noi l’ha narrata a pag. 84 Paolo Maria Costa, ben noto archeologo, arabista, islamista, che ha svolto lunga attività didattica a Baghdad, nell’Oman, a Cambridge e all’Istituto Orientale di Napoli.
Di una importante «provocazione» archeologica nel villaggio di Ban Chiang in Thailandia, con il ritrovamento di sepolture datate fra il 1000 e il 300 a. C., ci parla a pag. 48 l’archeologo orientalista Roberto Ciarla, che dal 1987 dirige il «Lopburi Regional Archeological Project» italo-thailandese.
I nostri lettori avranno notato che in questi miei sommari lascio quasi sempre verso la fine i nomi di Viviano Domenici e Maurizio Leigheb e questo accade perchè di loro ho già scritto tante volte nei numeri precedenti, che corro il rischio di bruciare troppo incenso in loro onore. Del primo, l’attivissimo responsabile della sezione scientifica del «Corriere della Sera», abbiamo a pag. 70, un brillante excursus fra le suggestive presenze nelle varie mitologie dei «mostri» quali il Minotauro, l’Idra, la Medusa, i Centauri e le Sirene, quest’ultime peraltro, seducenti. Di Maurizio Leigheb troviamo a pag. 118 un’accurata analisi etnografica dei nomadi Punà n della giungla del Borneo, che – ahinoi – si stanno riducendo a soggetti curiosi per i turisti.
Da ultimo, un ricordo doveroso a pag. 98 è dedicato da Silvia Manzoni e Andrea Tagliapietra a Giovanni Miani (1810-1872), che dalla natìa Rovigo si partì, per ricercare le sorgenti del Nilo, e durante la sua ultima spedizione in Africa Centrale morì di stenti nella residenza di Numa presso il fiume Uelle.
Questo articolo, così come il filmato, è il risultato di una spedizione del Centro Studi Ricerche Ligabue del 1980-82, guidata da Gabriele Rossi-Osmida che ha ricalcato, seguendo le indicazioni del Diario di Miani, conservate presso il Museo di Storia Naturale di Venezia, le sue orme e trovando i suoi ultimi messaggi incisi sulla roccia del massiccio vulcanico del Regiaf.
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