Ligabue Magazine 22

18.00

Primo semestre 1993
Anno XII

Nel 1949, alle Nazioni Unite, un rappresentante del Ruanda Urundi – allora si chiamava ancora così – destò sensazione perché respinse aiuti copiosi in attrezzature moderne per l’agricoltura e sovvenzioni allettanti in dollari, dicendo: «É troppo».

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Quindi spiegò il suo rifiuto: i nostri uomini, disse, non sanno neppure usare il cacciavite, e sapete che cosa succederebbe con tanta ricchezza piovuta dal cielo? Che venderebbero i trattori ai possidenti del Kenya, e invece di lavorare i campi passerebbero il tempo bevendo birra. Lo scalpore che seguì a quelle dichiarazioni si tradusse in un problema posto all’esame del Consiglio Economico e Sociale, quello di valutare la portata degli aiuti ai Paesi che stavano affrancandosi dalla soggezione coloniale in modo che il beneficio non si rivelasse un nocumento.

Stavano allora emergendo i casi clamorosi di alcune isole dell’Estremo Oriente che, trasformate in basi militari durante la guerra, avevano conosciuto per alcuni anni un benessere straripante e che, sgomberate dagli Americani, non erano tornate allo stato precedente del loro primordiale tenore di vita, bensì gli abitanti erano piombati nella disperazione non sapendo più fare a meno dell’appetitoso smoked ham, non reggevano alla rinuncia della birra, della Coca-Cola e del cinema serale gratuito.

Al Consiglio Economico e Sociale apparve subito chiaro che il problema sollevato dal delegato del Ruanda Urundi era di natura morale prima che politica ed economica. I lettori di questa rivista ricorderanno le molte volte in cui, dando il resoconto delle esplorazioni del Centro Studi Ricerche Ligabue in Nuova Guinea o nell’Amazzonia, si lamentava la sorte di civiltà  primitive avviate a scomparire, sommerse dall’acquisizione della plastica. Con questo nessuno pensava di sottrarre a quelle tribù i pochi agi che riducono le loro fatiche, o i medicamenti che li salvano da malattie endemiche: era, e rimane, la constatazione di mutamenti inevitabili, come è inevitabile l’influenza del progresso tecnico e scientifico nei Paesi industrializzati.

I ragionamenti di coloro che predicano contro il consumismo non fanno una grinza, ma il guaio è che non tengono conto della natura umana, come i misoneisti che inveivano contro l’avvento delle strade ferrate. à verità  inconfutabile che la creazione del bisogno provoca il desiderio del suo soddisfacimento, ma provate a dire a una casalinga che dovrebbe fare a meno della lavatrice e del detersivo, e immaginate la reazione. Queste riflessioni sono sorte spontanee in me, leggendo l’articolo di Giancarlo Ligabue, che parla del Mito del Cargo, pubblicato a pag 64.

Quel mito è tuttora vivo nelle isole della Melanesia dove, durante l’ultima guerra, i giapponesi prima e gli alleati poi, “costrinsero gli indigeni a lavorare per la costruzione di porti e piste per aerei; in cambio, essi ricevevano alimenti, strumenti di metallo e tutto uno spettro di innovazioni tecnologiche che, alla fine, turbarono il loro orizzonte culturale e materiale”. Così scrive Ligabue, aggiungendo che tuttavia, quel Mito del Cargo, con la manna che pioveva dal cielo, è rimasto come ispiratore dei movimenti di liberazione e di indipendenza dal giogo imposto da altre genti.

Un altro problema, un po’ diverso, ma che rientra nello stesso grembo, è esposto a pag. 134 da Hendrik N. Hoeck, biologo dell’Università  di Costanza ed ex-direttore della Stazione Darwin alle Galà pagos, le Islas Encantadas, chiamate anche arca di Noè del Pacifico, laboratorio e vetrina dell’Evoluzione, e perfino inferno di Dante! L’Autore pensa al futuro e si domanda: “… gli organismi nativi di queste isole potranno sopravvivere all’impatto umano (turismo) e a quello delle specie recentemente importate?”.

Pensiamoci un momento: le vacanze nelle isole tropicali sono di moda, là  il turismo porta benessere e consente soggiorni stupendi, ma è di ieri, per dirne una, il grido di protesta contro quei turisti che fanno strage di sempre più rari pesci dai colori smaglianti.

Entriamo ora in un altro mondo, ma stranamente restiamo in argomento. Jacek Palkiewicz, giornalista italo-polacco, ardito esploratore, che nel 1975 ha attraversato da solo l’Atlantico su una lancia di salvataggio, ci conduce, a pag. 24, in una specie di scorreria fra la miriade di etnie dell’immensa e ostica Siberia, e là  trova popolazioni che si sentono abbandonate dal nuovo regime, che ha portato una diaspora delle repubbliche dell’ex-URSS: sembra un paradosso, ma par di capire che quelle genti stavano meglio quando stavano peggio; adesso si sentono abbandonate, si sono accorte che il poco che avevano è diventato indispensabile e, quando trovano un po’ di alcool, bevono per dimenticare.

Davide Domenici è figlio d’arte, discende da magnanimi lombi, come si diceva una volta, è laureando in Storia e Civiltà  dell’America precolombiana, ha partecipato a diverse campagne di ricerca in Perù e nell’Isola di Pasqua e, last but not least, è figlio di Viviano, noto giornalista del Corriere della Sera e collaboratore del Ligabue Magazine. Davide ci dà a pag. 80 un’appassionata descrizione del gioco della palla diffuso fra i tifosi della Mesoamerica, praticato con tal passione che a Tenochtitlan, la capitale degli Aztechi, il campo sportivo era nel recinto sacro del tempio, al centro della città . Non è facile raggiungere il deserto di Atacama, ai confini settentrionali del Cile, e ancora meno agevole percorrerlo, ma Viviano Domenici c’è stato in quel deserto ed è giunto a San Pedro de Atacama, un’oasi suggestiva e misteriosa descritta a pag. 96.

Sapete chi fu Frederic Sackrider Remington, il valente e avventuroso disegnatore che il secolo scorso divenne ricco e celebre in America? Vale la pena di farne la conoscenza leggendo a pag. 48 la biografia scritta dalla giornalista veneziana Sandra Gastaldo che collabora anche con il Centro Studi Ricerche Ligabue. Chiudiamo con Venezia, con il suo deleterio fenomeno dell’acqua alta, che diverte gli stranieri, che spinge i giapponesi a scattare migliaia di fotografie, e che per i veneziani è un incubo dal quale non riescono a liberarsi. Ne parlo a pag. 118 in un articolo illustrato da significative fotografie.

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