Ligabue Magazine 26
Primo semestre 1995
Anno XIV
Nel 1541, il cardinale Antonio Granvelle, che fu potente ministro di Carlo V e di Filippo II, ricevette la visita di un giovane geografo di nome Gherard Kremer, che ben presto latinizzò il suo nome in Mercator. Il cardinale, che era uomo dottissimo, volle rivedere più volte il geografo per porgli infinite domande, tal che un giorno gli chiese come fosse possibile tracciare con tanta precisione i confini di un continente nella rete dei meridiani e dei paralleli. “E’ molto facile, Eccellenza, rispose il Mercatore. Io salgo su una montagna altissima, afferro i lembi del tratto di calotta terrestre che vedo sotto di me, l’appiattisco ben bene e mi ritrovo con il nostro pianeta come ai tempi di Omero steso su una bella carta ad usum navigantium …”.
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Mercatore, che poi tradusse la spiegazione faceta nello studio per la “proiezione cilindrica isogona a latitudini crescenti”, riuscì con la fantasia e il genio matematico ad immaginare una visione del mondo quale può averla avuta nella realtà Franco Malerba da una “montagna” alta 200.000 metri, e leggendo a pag. 104 l’articolo del primo astronauta italiano, mi sono fatto questa opinione: laureato in ingegneria elettronica e fisica, quindi in scienze esatte fino a miliardesimi di miliardi di decimali, associato al C.N.R. per il Laboratorio di Cibernetica e Biofisica di Genova, collaboratore del centro NATO di La Spezia, vincitore della selezione dell’Agenzia Spaziale Italiana e della Nasa per il compito di astronauta scientifico, autore di un bel libro sulla sua avventura spaziale, egli non vive certo con la testa fra le nuvole, e se penso che è anche parlamentare europeo, concludo che è uomo, come si dice, con i piedi per terra. Eppure è anche un poeta.
Lassù, nel blu dipinto di blu, mi è parso che un leopardiano Malerba stesse su quello shuttle “Atlantis” per contemplare l’infinito., “sedendo e mirando interminati spazi” … “e sovrumani silenzi, e profondissima quiete”, perchè compiendo un giro della Terra ogni 90 minuti, ha dimenticato i calcoli di Mercatore, ha rivissuto tragedie umane e storie gloriose, per concludere con i versi di un poeta francese e con una domanda angosciata : chi siamo?
In quanto a domande su misteri cui, per ora, nessuno sa rispondere, non ci risparmia nulla Francesco Jori con il suo scritto sul “Quark-Top” a pag. 68.
Jori, giornalista del “Gazzettino”, inviato speciale, politologo, divulgatore emerito di astruse ricerche scientifiche, ci mette al corrente del più recente passo in avanti compiuto al Fermilab di Chicago con la scoperta il 3 marzo scorso, annunziata ufficialmente in America, del quark-top, una particella minuscola che sta dentro al nucleo degli atomi, ha un diametro di un miliardesimo di miliardesimo di metro, e se sapete tradurmelo in cifre vi dico bravi. A sentire questi studiosi, il quark-top era ricercato da più di duemila anni dai filosofi greci Leucippo e Democrito per arrivare a James Joyce che, nel 1939, in “Finnegan’s Wake”, con la straordinaria vicenda di un bevitore smodato creduto morto, studia la natura dell’uomo e inventa la parola “quark” di cui poi si appropriò l’astrofisica.
In fatto di scoperte, in questo numero del Ligabue Magazine marciamo alla grande, e con un bel balzo raggiungiamo la Cordigliera andina del Condor dove Malio Polia, archeologo del Centro Studi Ricerche Ligabue, esperto conoscitore degli oscuri labirinti peruviani, ha studiato le tradizioni dei Wayakuntur, una etnia già antica quando gli Incas conquistarono le loro terre, e che avevano un attributo affascinante, li chiamavano i “Condor delle verdi Cordigliere”. Di anno in anno, dopo ripetute perlustrazioni, trovò la tomba del Signore di Wayakuntur il cui petto “era ricoperto da un’armatura di giunco e cotone rivestita di lamina di rame dorato e d’argento”. Così, a 3.000 metri di altitudine, rinvenne il più splendido e completo corredo di un medico chirurgo, un re-taumaturgo, del IV secolo d.C., e a pag. 48 Mario Polia ci fa percepire l’emozione dello scopritore di tale insospettata e unica meraviglia.
L’infaticabile, instancabile Viviano Domenici dirige le pagine scientifiche del Corriere della Sera, scrive per quelle pagine articoli di divulgazione dotta, da esperto di archeologia e paleontologia, e tutto questo non stando al tavolino, non per sentito dire, perchè viaggia tanto, partecipa spesso alle spedizioni del Centro Studi Ricerche Ligabue, e questa volta ci porta ad immergerci nel fascino dei mari del Sud, a conoscere l’isola dedicata alla Marquesa de Mendoza, la bella Maria Pilar, che non era la legittima consorte del viceré del Perù, Garcia Hurtado de Mendoza, marques de Santillana, ne era l’amante, ma il navigatore Alvaro de Mendana, che sapeva vivere, quando scoprì quelle isole a oriente di Tahiti, a lei le dedicò, ricevendone ambito guiderdone di cui però, non potè godere perchè morì poco dopo. La storia di queste isole è antica quanto il mondo, ma ancor oggi, racconta Domenici, gli abitanti vivono in una dimensione soprannaturale, con i loro tiki, idoli di pietra carichi delle forze misteriose del periodo preanimista, tabù e mana, attorno alla marae, templi all’aperto, dove signoreggia Make Make, la grande divinità polinesiana.
Restiamo in zona, se così posso dire, ma pur seguendo lo stesso meridiano, traversiamo l ‘Oceano Pacifico e con un balzo di un diecimila chilometri verso Occidente, raggiungiamo nell’arcipelago indonesiano l’isoletta di Sumba, dagli inglesi battezzata Sandalwood Island, chè quando dominavano i rajah indiani il legno di sandalo era una ricca merce di esportazione, e là Maurizio Leigheb, scrittore, documentarista, fedele collaboratore del Ligabue Magazine, ha conosciuto un popolo che ha dimestichezza con il soprannaturale sebbene legato ad una cultura che non ha proprio nulla in comune con quella dei polinesiani delle Marchesi. Anche qui, come a Bali, l’influsso originale è stato indù, ma la religiosità a sfondo animistico si esprime con la devozione al marà pu che racchiude in sè il mondo soprannaturale, che è la divinità che decide delle sorti degli umani. I Sumbanesi, coperti di indumenti di tessuti di cotone ricchi di simboli dai colori splendidi, vivono fra templi e monumenti funerari, vivono di magia e misticismo, convivono con i morti ai quali dedicano cerimonie e feste religiose costosissime, esorcizzano la paura e fidando nello sciamano che tiene lontano gli spiriti maligni.
Uno spirito benevolo premia invece il nostro Viviano Domenici, il quale fra i molti meriti ha anche quello di avere un figlio, Davide, laureato in lettere con indirizzo storico, la cui tesi ha ottenuto la lode e la dignità di stampa. Davide, che ha già partecipato nel 1994, agli scavi di Teotihuacan (Messico), a pag. 120 descrive un’altra misteriosa regione dell’America precolombiana dove ha trovato il suggestivo complesso archeologico del culto del giaguaro. A 19 anni, il bellunese Rotando Menardi, scrittore, fotografo, alpinista, partecipava alla sua prima spedizione sul monte Hancohuma in Bolivia, a vent’anni era già capo spedizione per la scalata del Nevado Kayesh in Perù, e subito dopo era sull’ Annapurna II.
Da allora ha raggiunto altre vette, almeno sei, e a pag. 80, ci trasporta in un mondo perduto da illustrazione fantastica di Gustave Dorè, ma che esiste davvero, che sorge dalla foresta tropicale fra l’Orinoco e il Rio delle Amazzoni, un immenso altopiano dove, fra le piogge e le nebbie, battuti da un vento implacabile, sorgono i Tepuy, montagne cilindriche alte mille, duemila metri. E’ la Gran Sabana con la sua flora e la sua fauna peculiali, uniche al mondo, e a leggere questo testo, sembra che lassù il giovane “scoiattolo di Cortina” Rotando Menardi ci si sia trovato benissimo, mentre a me vengono i brividi solo a pensare alla velenosissima rana antidiluviana che corre indisturbata da un Tepuy all’altro.

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