Ligabue Magazine 68

18.00

Primo semestre 2016
Anno XXXV

Fate girare un mappamondo e fermatevi in Africa. I nomi delle capitali e delle città che avrete davanti agli occhi racchiudono storie antiche, dalle quali emergono etnie, lingue o sovrani del passato che hanno forgiato le varie nazioni africane. Una di queste città è legata indissolubilmente ad un italiano, proveniente da una famiglia nobile friulana. Il suo nome era Pietro Savorgnan di Brazzà. E la città è Brazzaville, in Congo, l’unica in Africa che porti ancora il nome di un esploratore europeo.

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In effetti Pietro Savorgnan di Brazzà ha scritto pagine importanti nell’esplorazione e nella storia del Congo ma anche del Gabon. Fece conoscere geografie e culture sconosciute ad un’Europa ancora carica di paure e pregiudizi sull’Africa, dominata dal pensiero colonialista. Con le sue esplorazioni Pietro Savorgnan di Brazzà riportò tante testimonianze di un mondo oggi svanito. Lo fece grazie ai suoi scritti, ai disegni fatti dai suoi compagni di spedizione ma anche grazie ai tanti oggetti che riportò in Europa tra i quali statue di grande pregio artistico e culturale che ci consentono di capire tutta la ricchezza culturale delle etnie che incontrò.

Oggi al Museo di quay Branly, a Parigi, sono esposte alcune statue Kota da lui riportate. La loro storia ci viene raccontata da Louis Perrois, grande esperto di arte e cultura africana (soprattutto quella che utilizza metalli e cuoio) che da più di mezzo secolo attraversa l’Africa. Queste statue che rappresentavano gli antenati, oggetto di culto da parte di tantissimi gruppi, hanno a volte un tale grado di astrazione da aver acceso l’interesse di molti musei oltre a quello di generazioni di collezionisti. Non a caso una di queste statue troneggia in quella che era la sala da pranzo di Peggy Guggenheim, a Palazzo dei Leoni, a Venezia. Colpisce pensare che tutto questo sia in realtà un “effetto collaterale” della sconfinata sete di scoprire di Pietro di Savorgnan di Brazzà.
Ancora oggi, nella casa dei suoi discendenti, non distante da Udine, si può ammirare una vecchia cartina geografica con l’Africa ancora “bianca” al suo interno. All’epoca infatti, era ancora in buona parte da scoprire per il mondo occidentale. E su questa area priva di fiumi, montagne e villaggi, si può ancora leggere quello che scrisse Piero, prima delle sue grandi esplorazioni: “Parte che sarìa interessante visitare”.

Vi siete mai chiesti da dove derivi la parola “cannibale”? Sembra un termine moderno, e invece proviene dal passato e da oltre oceano. Esistono per la verità molte teorie sull’origine di questa parola ma quella che molti esperti ritengono valida ci porta ai Caraibi. E più esattamente alle Piccole Antille. Gli spagnoli definirono antropofagi, gli abitanti delle Antille che vanno da Trinidad alla Guadalupa. Il modo di chiamare questi amerindi, “Caraibi insulari”, diede origine alla parola cannibale. Ma erano davvero dei feroci mangiatori di uomini? Andrè Delpuech, conservatore generale del patrimonio, responsabile dell’unità patrimoniale delle collezioni delle Americhe del museo di quai Branly di Parigi, ci racconta quella che è la loro vera storia. Certo rispetto ai pacifici taà¯no, che abitavano le Grandi Antille, erano popolazioni molto ‘aggressive’ e bellicose, capaci di spingersi fino a Puerto Rico. Ma nuove scoperte archeologiche ci svelano un lato inaspettato della loro cultura, fatto di ceramiche e oggetti sorprendenti, come leggeremo nell’articolo di Delpuech.

Si puಠparlare di antropologia dei robot? La domanda può sembrare provocatoria. In effetti un robot è una copia meccanica di un essere umano, può quindi avere anch’essa una “evoluzione culturale” a tal punto da poter parlare di etnie e culture esattamente come si fa con l’uomo? La risposta ovviamente non coinvolge tutti quei macchinari che nelle industrie (o persino sugli aerei, con i piloti automatici) fanno il lavoro dell’uomo. Un discorso di questo tipo è pi๠consono alla vera e propria “storia” che i robot hanno avuto nella letteratura, basti pensare ad Asimov, o al cinema. Ed è proprio in quest’ultimo settore che scoprirete una vera e propria evoluzione del robot attraverso pellicole entrate nella storia come Blade runner, Terminator, Guerre stellari. Partendo da pellicole del 1915 Carlo Montanaro , docente, veneziano storico del cinema, grandissimo collezionista di antiche pellicole, ci accompagna come un esploratore dell’800 in questa terra popolata da automi, robot e androidi (anche i termini cambiano e si evolvono).

Che cosa succede quando assieme agli uomini sbarcano dalle navi (o dagli aerei) anche altri esseri viventi come cani, gatti, ratti o manguste? Cambia un po’ tutto. Le specie si adattano ai nuovi mondi ma questi inserimenti possono avere risultati catastrofici se collocati in un’isola. Un modesto predatore può distruggere tutto o quasi se non ha antagonisti. Spesso non si pensa a questo: i gatti, per esempio – come ricorda Alessandro Minelli , evoluzionista – hanno provocato la scomparsa di 33 specie di uccelli che vivevano su poche isole sperdute nell’oceano. Mentre sembra che il dodo – grosso uccello imparentato con i colombi, incapace di volare, che viveva nelle Mauritius – animale così rappresentato nella nostra contemporaneità, sembra sia stato eliminato dai porci rinselvatichiti. Ecco, basta un piccolo viaggio alle Hawaii per portare decine di nuove specie e farne drammaticamente sparire altre: alcuni uccelli sono stati avvistati fino al 2004 e poi di loro nessuna traccia. Di questi delitti e delle pene che ne seguono per l’uomo e l’ambiente parla Minelli: storie affascinanti ma anche terribilmente dure. Se qualcuno conosce il nome di Saddo Drisdi si faccia avanti perché a questo signore va il premio della più forte resistenza contro uno sfratto. Forse il primo “occupante” illegittimo riconosciuto nella modernità al turco Drisdi capitò l’insolita sorte di vivere per alcuni tempi da solo in un palazzo a Venezia, il Fondaco dei Turchi, quello che ora tutti conoscono come sede del Museo di Storia Naturale. Da dove provenisse quell’uomo, chi fosse e come si è difeso dall’allontanamento di quella che riteneva (giustamente?) territorio della sua patria, la Turchia, Fabio Isman, scrittore e giornalista racconta tutto o quasi. Nella cornice della secolare presenza turca nella Serenissima l’ultimo turco è l’episodio più singolare ma anche curioso di una rapporto culturale-commerciale che ha impregnato la storia della Serenissima repubblica di Venezia. E che, per qualche verso, continua tutt’ora.

Buon Viaggio!

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