Ligabue Magazine 70

18.00

Primo semestre 2017
Anno XXXVI

“Un gioco da perderci la testa” il titolo della storia che descrive l’archeologo Davide Domenici: un percorso scientifico che, partendo dal gioco praticato in Mesoamerica millenni fa con palle di gomma, arriva fino alla scoperta che gli europei, gli spagnoli per primi, fanno proprio del caucciù. Così emozionante che nella corte di Carlo V dove sono approdati degli indios atleti i cui gesti sono disegnati dell’artista tedesco Cristoph Weiditz si racconta più di quel materiale che rimbalza invece che del gioco.

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* Le versioni digitali dal n. 1 al 57 sono ottenute da una scansione del Magazine. Potrebbero pertanto presentare delle imperfezioni nella visualizzazione dei testi e delle immagini.

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Domenici ricorda come le più antiche palle siano state ritrovate in una laguna in un sito Olmeco nell’area di Veracruz, assieme ad altre offerte dedicate alle divinità sotterranee delle acque e della fertilità in un periodo tra il 1700 e 1600 avanti Cristo. Il gioco della palla aveva quindi una fortissima dimensione simbolica, dove il campo da gioco era luogo di morte sacrificale e di rinascita, spazio per una battaglia cosmologica tra vita e morte. Su queste presenze l’archeologia ha dato risultati sorprendenti: undici campi da gioco a El Tajìn, ventiquattro a Puebla.

Nonostante le molte conoscenze, ricorda Domenici, la simbologia religiosa associata al gioco in epoca classica doveva essere molto più complessa di quanto non si sia ancora capito anche se le partite, chiaramente, avevano un fondamentale valore politico: spesso sovrani o giovani principi sono rappresentati in competizioni che si svolgevano durante incontri diplomatici tra governanti di diverse città. Ma il gioco resta gioco, nonostante i forti simbolismi: i cronisti spagnoli parlano infatti anche di partite giocate per giocare, con scommesse elevatissime e atleti osannati e ricchissimi. Proprio come oggi.

Tra avventura moderna e mitologia si colloca invece la rievocazione della storia del viaggio del Kon-Tiki, la zattera di legno di balsa con la quale l’esploratore norvegese Thor Heyerdahl e i suoi cinque compagni attraversarono l’Oceano Pacifico dal Perù fino alla Polinesia, con l’intento di spiegare le rassomiglianze tra civiltà preincaiche e i documenti delle isole del grande oceano. Una teoria quella dell’etnologo europeo che fu subito messa in dubbio e che tutt’ora viene smentita dai risultati delle ricerche con il DNA ma che ha comunque permesso di dimostrare che una zattera può viaggiare per 101 giorni da est a ovest nel Pacifico. Quell’avventura era il 1947, la guerra finita da due anni viene rievocata da Adriano Favaro fu anche la prima ad essere seguita in diretta dal mondo intero attraverso i messaggi radio. E sempre nel mare, questa volta in quello dei Caraibi, si resta con l’affasciante racconto di Fabio Bozzato, giornalista e saggista, che indaga sull’affondamento del galeone San Josè (descritto a quel tempo come il galeone più ricco di sempre; la storia è ripresa anche da Gabriel Garcìa Márquez) di fronte il porto di Cartagena de la Indias. Colpito dai cannoni dalle quattro navi inglesi il galeone col suo favoloso carico di oro e oggetti preziosi resti isolato sul fondo dall’8 giugno 1708 fino a poco tempo fa, quando una società americana ne annunciò il ritrovamento ma venne bloccata dal governo colombiano che si disse proprietario dei patrimoni subacquei e dei tesori affondati. Dando così vita ad un nuovo moderno conflitto, stavolta a colpi di carte bollate e atti di tribunali.

Dell’arte della mercatura che consiste nel dare un’anima al commercio e alle attività ad esso collegate intuizione modernissima e culturalmente molto avanzata per lo spirito del XV secolo parla Giovanni Favero, docente di storia economica all’università di Ca’ Foscari, che racconta le vicende del ragusano Benedetto Cotrugli e del suo libro “L’arte della mercatura” scritto nel 1458, per molti anni dimenticato o quasi; e riapparso ora anche in inglese. Cotrugli è personaggio che sta diventando fondamentale nella storia del commercio: a lui si devono i primi testi della partita doppia, quella che Luca Pacioli racconterà – una generazione dopo – in modo esemplare, copiando anche qualche pagina del suo sconosciuto predecessore. In questo libro Cotrugli offre uno scenario dei doveri comportamentali del mercante, dall’onestà alla morigeratezza nel cibo e negli abiti; all’approccio con altre culture e stili di vita. Un capolavoro di saggezza, per molti ancora validissimo.

Ad un’altra sorpresa ci avvicina Diego Calaon, archeologo veneziano dell’università di Stanford che descrive la nascita della città di Venezia in modo piuttosto differente da quanto faccia la maggioranza dei testi di storia. Nè barbari né guerre, è il suo motto: la città è nata per il complesso meccanismo di commerci, attività marinare, sistema di vita dove le materie prime non erano le pietre bensì il legno, i materiali di scambio, il sale, la pesca. Venezia nata insomma dal forte dialogo tra terraferma e laguna dove le barene col tempo erano diventate magazzini, porti e luogo di produzioni artigianali. E nemmeno è poi tanto vero che Venezia e Bisanzio siano state sempre gemelle. La Serenissima nasce autonoma, nel IX secolo, per diventare bizantinizzante sì, ma almeno due secoli dopo. Una sorpresa dopo l’altra Calaon ci porta distante dalle leggende di fondazioni e dentro una verità che l’archeologia racconta fino in fondo.

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