Ligabue Magazine 72

18.00

Primo semestre 2018
Anno XXXVII

Benvenuti a bordo! Anche in questo numero di Ligabue Magazine partiremo per nuovi viaggi e nuove scoperte sulle rotte della conoscenza. Inizieremo con un articolo di Annie Caubet, archeologa e curatrice onoraria del famoso Museo del Louvre, nonché responsabile della mostra sugli idoli che la Fondazione Giancarlo Ligabue organizza a Palazzo Loredan, a Venezia, sede dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Il tema della rassegna è appunto Idoli. Il Potere dell’Immagine e vi sono esposte duemila anni di rappresentazioni del corpo umano, dal 4000 al 2000 a.C.

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* Le versioni digitali dal n. 1 al 57 sono ottenute da una scansione del Magazine. Potrebbero pertanto presentare delle imperfezioni nella visualizzazione dei testi e delle immagini.

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Abbiamo pensato di dedicare tutto il numero a questo tema così stimolante e ne è scaturita una sorta di monografia a che affronta l’argomento degli idoli da diverse sfaccettature: si passa dalla filosofia alla storia, dall’antropologia, ovviamente all’archeologia. Idoli, idolatria, iconoclastia, feticci, miti e mitizzazioni è quello che troverete sfogliando le pagine del magazine. Caubet è curatrice della mostra, del catalogo, oltre che, come abbiamo detto, autrice dell’articolo di apertura in cui racconta l’affascinante viaggio nel tempo e nello spazio compiuto per raccogliere queste statuette. Il periodo considerato è interessante perché come si dice “di transizione”: si passa infatti dal tardo Neolitico alla prima Età del bronzo, cioè proprio quando gli insediamenti umani si trasformano da villaggi agricoli a centri più organizzati ed interagenti dando così vita ad un embrione di società urbanizzate.

L’area nella quale gli oggetti sono stati prodotti è vastissima e comprende in sostanza tutto il Vecchio Mondo: dalla penisola iberica alla valle dell’Indo. É sorprendente constatare quanto regioni così distanti fossero in grado di condividere elementi comuni. Ad aiutare questo fenomeno erano anche la comunicazione e il commercio che già in periodi così lontani, viaggiavano lungo rotte terrestri e marine ben de nite. Artigiani itineranti realizzavano queste figurine antropomorfe utilizzando materie prime esotiche, dall’avorio africano all’ossidiana sarda. In un suo articolo Julien Volper, curatore del Museo reale dell’Africa centrale di Tervuren, in Belgio, ci racconta dei feticci e del modo di affrontare la morte nella parte centrale del continente africano. Il feticcio, ma più in genere l’arte sepolcrale, è un modo per prolungare l’esistenza del defunto. Finché le sculture della tomba non finiranno in polvere, rimarrà viva la memoria dello scomparso.

In altri casi le figure dedicate agli antenati vengono custodite nei luoghi dei vivi, come ricordo del morto, in modo che il suo spirito resti benevolo nei confronti della famiglia. L’idolo c’è se c’è luce, se veniamo abbagliati dal luccichio, dal baluginio: ce lo descrive Marino Niola, docente di Antropologia dei simboli presso l’università di Napoli Suor Orsola Benincasa, che si occupa degli aspetti del con- temporaneo. L’idolo è splendore, è meraviglia, sono gli «etterni rai» dei quali Dante vede circonfusa Beatrice, sono i metalli che luccicano, i vetri che riflettono, i cristalli che brillano. Dal vitello d’oro agli Swarovski, dalle pietre preziose agli strass, lo scintillio è simbolo di potenza, di sacro, di riflesso terreno della luce celeste. Un lo luccicante unisce i sovrani del mondo antico agli idoli del contemporaneo, da Madonna a Michael Jackson: il pubblico doveva, e deve, rimanere abbagliato dalla luce che emanano. Arriviamo ad Andrea Tagliapietra, docente di Storia delle idee e Filoso a della cultura all’università San Raffaele di Milano, che ci chiarisce il significato di idolo: è la visione di dio. Non si tratta di un semplice rifloesso, perché all’idolo si sacrifica, l’idolo puಠessere foriero di violenza collettiva, di teatralizzazione del sacrificio.

L’idolo può però anche provocare una reazione, e quindi essere distrutto, bruciato, polverizzato, spesso assieme a chi lo adora. Si chiama iconoclastia e ce ne parla Nicola Bergamo, bizantinista veneziano. Ci illustra quel periodo oscuro dell’ottavo secolo, quando a Costantinopoli si distruggevano le immagini sacre. Non ne sappiamo moltissimo anche perché le fonti a disposizione sono quasi tutte iconodule, ovvero si riconducono a coloro che le immagini volevano salvare. Nel XVI secolo, dopo aver rischiato di essere spazzata via per sempre dalla gravissima sconfitta di Agnadello, il 14 maggio 1509, Venezia si risolleva e si ritaglia un nuovo ruolo diventando un mito. Alessandro Marzo Magno, giornalista e scrittore, nonché nuovo direttore di Ligabue Magazine, spiega che la Serenissima non è più una potenza militare in grado di competere con i grandi stati europei, ma diventa un simbolo, un esempio di lungo e buongoverno al quale gli altri devono rifarsi. E ancora ritroviamo il luccichio: Venezia riluce, risplende di arti, di bellezza. La ricchezza diventa un valore politico e le feste pubbliche assumono la funzione di rituale civico in grado di affiancarsi a quello sacro.

Non aggiungo altro a questo punto, se non un caloroso buon viaggio!

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