Ligabue Magazine 9
Secondo semestre 1986
Anno V
Quel grande umanista che fu Giovan Battista Ramusio ci ha lasciato un’opera di valore inestimabile, pubblicata fra il 1550 e il 1559 con il titolo «Delle navigationi et viaggi», ancor oggi modello insigne per chi ama raccogliere relazioni di viaggi e studi geografici. Ramusio era un uomo dottissimo, elegante scrittore in latino e in greco, conoscitore di alcune lingue orientali, era stato allievo a Padova del grande Pietro Pomponazzi al quale rimane sempre legato da profonda amicizia, anche quando, entrato a far parte della Cancelleria della Repubblica Serenissima non era scevra da rischi la frequentazione di un filosofo il cui celebre viaggio sulla immortalità dell’anima fu per ordine del Vescovo bruciato sulla pubblica piazza di Venezia.
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Ramusio era uomo di tal forza di carattere e di così grande sapere che nonostante il suo spirito di indipendenza era tenuto in grandissima considerazione, tanto che fu nominato, appena trentenne, segretario del Senato veneto, e in quel periodo, fra i molti incarichi di fiducia ebbe anche quello di trattare con il Caboto quando questi offrì i suoi servigi a Venezia.
Grazie alla sua cultura e alla sua dimestichezza con gli illustri personaggi dell’epoca, letterati, scienziati e navigatori, potè raccogliere quelle relazioni dei viaggi più famosi dalla antichità ai suoi tempi, dalla circumnavigazione dell’Africa del cartaginese Hannone alle spedizioni di Alvise Ca’ da Mosto e di Vasco de Gama, via via con descrizioni della Tartaria, della Persia, della Moscovia, fino al Perù e al Messico, insomma, in quei volumi v’era tutto il mondo, e Luigi XII re di Francia tentò invano di averlo alla sua corte, allettandolo con l’offerta di una cattedra alla Sorbona.
Questo ricordo del Ramusio a cinque secoli dalla sua nascita non presume di essere un omaggio ad un maestro impareggiabile, che merita ben altre celebrazioni poichè tanto nomini nullum par elogium, e se qui l’ho citato, è perchè noi del Ligabue Magazine ci sentiamo un po’ come lui.
Ohibò, si va bene che la modestia non è virtù precipua dei giornalisti, ma pur conscio dell’abisso che dal Ramusio mi separa, e ora parlo solo per me, in qualcosa a lui mi avvicino, almeno dal punto di vista artigianale. Ramusio non è mai stato in Africa, in Asia, nè mai avrebbe avuto il tempo di attraversare l’Atlantico, eppure imparava molte cose anche facendosele raccontare da chi le aveva viste.
Difatti, quando, per dirne una, vedo Giancarlo Ligabue al ritorno da un viaggio nel Pacifico o nel deserto africano, o dall’America del Sud, la prima cosa che gli dico è: «Racconta…». É quello che ho fatto anche quando è rientrato da una delle sue venture lungo la Cordigliera delle Ande, dove deviando dalla Panamericana, mille chilometri al nord di Lima, ha visitato e studiato quel monumento preistorico che ha preso il nome di Sechin dal fiume che scorre là presso, e che forse è un mausoleo, forse un santuario dei sacrifici umani, o forse, dice Ligabue, «è il monumento di una ribellione popolare trasformata dalla oligarchia imperante in una carneficina umana». Sicuramente è la testimonianza nella pietra di avvenimenti tragici e orrendi, e il lettore ne troverà attento esame a pag. 46.
Restiamo ancora per un momento nel favoloso Peru, ed ecco che con un testo suggestivo quanto le foto che lo accompagnano, Hansruedi Dorig, eccellente conoscitore del mondo Inca, ci mostra come ancor oggi colà si costruiscano, quasi con intento religioso, ponti fatti con corde di erba icchu, proprio come usavano nei secoli passati, e son ponti che superano abissi paurosi e che si spera oggi più resistenti di quello che, a mezzodì del 2 luglio 1714, ha provocato nonostante la protezione di San Luigi di Francia, la catastrofe in cui perì la marchesa Dona Maria de Montemajor.
É chiaro che non potevo resistere alla tentazione di accompagnare – a pag. 102 – la narrazione attuale di Dorig, dalle pagine iniziali del libro affascinante di Thornton Wilder «Il ponte di San Luis Rey».
Riconosco che lo studio dei fossili, come quello dei minerali, spesso dà una sensazione di aridità che si supera allorchè ci si avvede come una pietra possa stimolare la fantasia quando conserva un’impronta vecchia di milioni di anni. Leggete a pag. 124 la descrizione dei giacimenti di fossili scoperti in quel di Bolca, nel veronese, e vedrete come Bruno Berti sia riuscito a darci un racconto affascinante parlando di pesci e di alghe che hanno 50 milioni di anni o giù di lì.
Nel numero scorso, ho accennato al successo della visita di un nostro autorevole collaboratore, Viviano Domenici, al National Geographic Magazine, ed ora egli, a pag. 64, ce ne offre un resoconto che, mi pare, giustifica il nostro orgoglio.
Sono cinquantatrè le isole dell’arcipelago delle Bijagòs, al largo della Guinea-Bissau, e fra i Bijagòs, un tempo ritenuti barbari e crudeli, Fausto Sassi della Televisione Svizzera, che torna spesso a visitarli, ha trovato un grande amico di nome Josè, e ce lo fa conoscere a pag. 76.
I nostri lettori oramai conoscono bene Maurizio Leigheb che, dopo aver girovagato per il Pacifico, sulla via del ritorno si è fermato – vedi pag. 24 – nella vasta pianura fra due fiumi leggendari, il Tigri e l’Eufrate, e ha trovato chi naviga ancora su quelle barche dette mashuf, di un modello colà in uso da quasi cinquemila anni!
La nostra amica ricercatrice Lenora Carey, anche lei brava navigatrice, bene accolta nell’isola indonesiana di Lembata, a pag. 88 , ci porta a bordo di un peledang per vivere le emozioni della pesca di un cetaceo, e per farci sapere che cosa mai facciano quegli indigeni delle molle d’auto.

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